Si può spiegare la guerra ai bambini? Gli esperti dicono di sì, la censura sarebbe una perdita di fiducia nel genitore. Ecco i consigli di uno dei massimi psicoterapeuti italiani: Domenico Barrilà, intervistato da Sky Tg24.
“Ogni volta che si affaccia un imprevisto” spiega Barrilà “comincia la caccia al modo migliore di spiegarlo ai bambini, si tratti di pandemia, di morte, di malattia, di sesso oppure di guerra. Come se dovessimo rapportarci a una specie protetta e come se l’informazione adulto-bambino avesse regole del tutto aliene rispetto a quelle che i grandi usano tra di loro. La regola aurea è, dunque, creare un clima di sana curiosità, rispondere sempre alle domande del bambino, non confondere il suo livello di curiosità con il nostro. Noi in genere possediamo più informazioni, quindi le notizie che ci servono partono anche da una base di consapevolezza che il bambino non possiede. Parlando di guerra, occorre capire, anche in questo caso (bambino per bambino) cosa gli interessa. Ad esempio, magari vuole solo sapere se possono cadere le bombe qui da noi, se il papà andrà in guerra. Non è difficile rispondere. Se vuole saperne di più glielo diremo, a cominciare dalla distanza che c’è tra qui e l’Ucraina e, soprattutto, che la guerra non riguarda l’Italia.
“In realtà” continua Barrilà “per tutti questi argomenti, come accade per noi adulti, il modo peggiore per ricevere informazioni è…non riceverle, soprattutto se si desidera riceverle. Quando un bambino, che percepisce uno stato diverso dall’ordinario, viene escluso dal flusso delle informazioni, muoverà alcuni passi logici. Innanzitutto cercherà di colmare i vuoti narrativi, attraverso congetture che saranno influenzate da valutazioni altrettanto logiche. “Se me lo nascondono deve trattarsi di qualcosa di grave”. Questo accrescerà l’area dell’ignoto, aumenterà le sue ansie e le sue paure, ma soprattutto renderà più veloce la fabbrica delle congetture, così la percezione del pericolo aumenterà”.
Come succede per i lutti e le malattie gravi che possono colpire la cerchia famigliare, è sempre meglio dire la verità ai bambini?
Il bambino pensa: “Se non mi dicono nulla è perché non si fidano di me”. Un messaggio svalutante che ferisce il bambino, perché molte delle cose che vorrebbe sapere le ha già percepite per conto proprio. Le faccio un esempio. Se io entro in casa ed è accaduto qualcosa di particolare, me ne accorgo anche se i miei familiari non mi dicono nulla. Il loro atteggiamento, il clima che si respira, in qualche modo mi segnalano che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Informare un bambino, dunque, contribuisce a diminuire la sua angoscia e aumenta il livello di considerazione di sé. Non è necessario trovare procedure sofisticate, ma trattarlo come vorremmo essere trattati noi.
Nel caso della guerra di Ucraina, bisogna parlargliene per forza? Anche se lui mostra disinteresse?
Un primo passo importante è cercare di capire il suo reale livello di interesse per il tema specifico. Nel caso non manifesti interesse per un evento, non serve a molto parlargliene, poiché in assenza di interesse qualsiasi discorso tende a cadere nel vuoto. Se non sembra mostrare interesse (talvolta accade per paura delle risposte) ma percepiamo che una certa tensione, possiamo provare a stimolare la conversazione.
Di un argomento così complesso, quali sono gli aspetti che possiamo spiegare loro?
Se il bambino pone una domanda su un aspetto particolare, specifico, di un avvenimento, bisogna concentrarsi su quello, perché in quel momento è solo su tale aspetto che desidera sapere, evitando di allargare troppo la quantità di informazioni. Andare troppo oltre quello che chiede potrebbe confonderlo, in genere chiede quanto gli serve, il suo personale “contenitore” in quel preciso momento ha quella capacità. Non è necessario allargare troppo l’orizzonte della risposta, ma fare comprendere con semplicità che si è disponibili a esaudire tutte le sue curiosità, facendo in modo che egli percepisca questa apertura come sincera. Se avverte reticenze, omertà, confusione nell’adulto, incrementerà la sua ansia. Se percepisce che l’adulto mente, anche solo per tranquillizzarlo, si troverà davanti a un bivio molto spiacevole, perché dovrà decidere se credere all’adulto (smentendo se stesso) oppure se credere a se stesso (entrando in conflitto con l’adulto). Quindi mentire non è una buona idea, in particolare quando la realtà parla.
Cosa si può dire a quei genitori che temono che spiegando la verità ai propri figli li si faccia preoccupare inutilmente?
Qualche giorno fa, una persona cara mi ha girato il messaggio di una collega ucraina: “Ciao, l’esercito russo e bielorusso stanno attaccando tutta l’Ucraina, compresa Kiev. Al mattino molto esplosioni. Il General Manager ci ha detto di stare a casa o, se possibile, andare via da Kiev. Sto cercando di uscire dalla capitale. Vi terrò aggiornati”. Meglio di no, dicono alcuni genitori, potrebbe disturbare i nostri ragazzi mentre si riprendono dalle fatiche della Dad. Questa, o anche peggio, è la realtà di un Pianeta minacciato da spaventose diseguaglianze, dove la democrazia è un privilegio per pochi, la povertà la norma e la libertà un sogno, mentre noi ci ostiniamo a educare come se vivessimo in una bolla, presentando ai bambini e ai ragazzi una realtà inventata di sana pianta, senza mai cercare di espandere la loro percezione del mondo. “La scuola dovrebbe prepararci alla vita”, dice una ragazza in una delle inchieste-piagnisteo sulle conseguenze della pandemia, ma prima di rivolgere tale richiesta alla scuola dovrebbe pregare i propri genitori di raccontarle la verità sulla vita, invece di trattare lei, figlia, come una riserva da proteggere, minacciando di denunciare, come nei film di Totò, l’insegnante quando cerca di fare proprio ciò che chiedono i ragazzi, prepararli alla vita, magari ricordando che alle nostre porte c’è l’inferno. Se nascesse una generazione di educatori capaci di rivolgersi ai figli con rispetto e realismo, mostrando loro le reali istantanee del mondo, gli studi di psicologia si svuoterebbero d’incanto, i profeti di sventura dovrebbero cercarsi un altro lavoro e i nostri figli vivrebbero una vita degna della loro intelligenza e della loro dignità, consapevoli che molti dei loro coetanei sparsi per il mondo si chiedono se valga la pena esserci.