“La lezione” (Einaudi, 120 pagine) è il nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky sul mestiere dell’insegnante. E l’ex-presidente della Corte costituzionale, a lungo anche docente universitario, incentra la sua analisi proprio sul momento in cui tutto si crea, la lezione appunto.
La lezione come esperienza di vita e culmine della via alla conoscenza, a ricordarci che ciò che più conta durante un viaggio è la qualità del tragitto stesso.
Il termine lezione si ricollega allora al significato latino di legere, quando un gruppo di persone si riuniva attorno a qualcuno che li aiutava a comprendere qualcosa di complicato. Infatti, per Zagrebelsky “la lezione è una sorta di chiamata a raccolta intorno al sapere”.
E tutto avviene in un luogo ben preciso, l’aula, che va oltre il significato di uno spazio con quattro pareti. L’aula infatti richiama l’aulos, strumento musicale greco, e può essere vista come un luogo dove le parole vibrano e risuonano trasmettendo le conoscenze passate e aprendo al moderno.
È con le parole che professori e studenti creano il mondo nominandolo. E sono le parole che, anche nelle aule dove oggi non mancano le immagini degli strumenti elettronici, restano la più importante delle istituzioni umane.
Ma come usarle queste parole durante la lezione? Prima di tutto con attenzione, perché “il veleno dell’equivoco è sempre in agguato”. E poi, visto che il docente deve inevitabilmente “sedurre”, deve farlo solo verso la materia che tratta. A lezione c’è “fascino” se c’è “voglia” di partecipare e i contenuti non devono limitarsi a riempire un’ignoranza ma attivare una tensione e stimolare un interesse.
A lezione nessuno può limitarsi a ripetere, non lo studente, ma nemmeno il professore. Ognuno deve partecipare al progetto di ricerca con interventi, problemi, pause e digressioni. A tutto il resto ci penserà il manuale, solo quello sì, immobile e ripetitivo.
Il saggio parla certamente della scuola in maniera ideale e utopica, ma Zagrebelsky non manca di sottolinearne i limiti reali e i danni che ha provocato, dai “voti politici” al rovesciamento del rapporto tra studenti e professori, con i primi che sono finiti a giudicare i secondi.
E poi la “magia” della lezione che si va a perdere nel momento in cui diventa un mero luogo di esami e valutazioni numeriche, ma è anche vero che finché i titoli di studio varranno qualcosa non si potrà rinunciare alle verifiche.
L’importante è che la scuola non ceda di fronte a quella macchina burocratica che la vede solo come azienda. La scuola deve vivere del rapporto tra studenti e docenti e delle scintille che nascono durante le lezioni. Perché l’insegnamento è tale solo se oltre a istruire, istituisce. Dando vita a qualcosa di nuovo.